IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE 
                    PER IL FRIULI-VENEZIA GIULIA 
                           (Sezione Prima) 
 
    Ha pronunciato  la  presente  ordinanza  sul  ricorso  numero  di
registro generale 36 del 2020, proposto da  G.  C.,  rappresentato  e
difeso dagli avvocati Massimo  Romano,  Danilo  Leva,  con  domicilio
digitale come da PEC da Registri di Giustizia; 
    Contro Ministero dell'interno, Ministero interno  -  Dip.  P.  S.
Polizia di Stato, in persona del legale rappresentante  pro  tempore,
rappresentati  e   difesi   dall'Avvocatura   distrettuale   Trieste,
domiciliataria ex lege in Trieste, piazza Dalmazia, 3; 
    Ministero dell'interno, Dipartimento  della  Pubblica  Sicurezza,
Polizia di Stato, Scuola allievi Agenti di Trieste non costituiti  in
giudizio; 
    Per l'annullamento, previa sospensione dell'efficacia: 
        del decreto del Capo della Polizia, direttore generale  della
Pubblica Sicurezza del  Dipartimento  della  Pubblica  Sicurezza  del
Ministero dell'interno n. 333 - D/98.03.A.A.206° del 18 ottobre 2019,
di espulsione del ricorrente dal 206° corso di formazione per Allievi
Agenti  della  Polizia   di   Stato   e   cessazione   dal   servizio
nell'Amministrazione della Pubblica Sicurezza a decorrere dalla  data
di notificazione del provvedimento, avvenuta il 23 ottobre 2019 (doc.
2); 
        del provvedimento del direttore della Scuola  allievi  Agenti
della Polizia di Stato di Trieste prot. 8544 del 10 ottobre 2019,  di
sospensione del giudizio di idoneita'  al  servizio  di  polizia  del
ricorrente, frequentatore del 206° corso di formazione, notificato in
data 23 ottobre 2019 (doc. 3); 
    nonche'  di  tutti  gli  atti  presupposti,  consequenziali   e/o
connessi, quali: 
        la nota a firma direttore della Scuola Allievi  Agenti  della
Polizia di Stato  di  Trieste  prot.  8140  del  25  settembre  2019,
concernente la proposta di espulsione del ricorrente dal  206°  corso
di formazione (doc. 4). 
        il decreto del Presidente della Repubblica 25  ottobre  1981,
n. 737, art. 6, punto 8; 
        il decreto del Presidente della Repubblica 24 aprile 1982, n.
335, art. 6-ter, comma 3. 
    Visti il ricorso e i relativi allegati; 
    Visti tutti gli atti della causa; 
    Visti  gli  atti  di  costituzione  in  giudizio   di   Ministero
dell'interno e di Ministero interno - Dip. P. S. Polizia di Stato; 
    Visto l'art. 23 della legge n. 87/1953; 
    Vista l'ordinanza cautelare di questo Tribunale, n. 12  del  2020
del 29 febbraio 2020; 
    Relatore nella Camera di consiglio del giorno 26 febbraio 2020 il
dott. Luca Emanuele Ricci e uditi  per  le  parti  i  difensori  come
specificato nel verbale; 
    La vicenda 
    Il  ricorrente  impugna,  con  contestuale  richiesta  di  misura
cautelare, il decreto del Capo della Polizia (N... del  ...)  che  ha
disposto la sua espulsione dal 206° Corso per  allievi  agenti  della
Polizia di Stato e la cessazione dal  servizio  nell'Amministrazione,
nonche' il provvedimento del direttore della  Scuola  allievi  agenti
della Polizia di Stato di Trieste (prot. del...  )  che,  nelle  more
dell'emanazione del primo, aveva sospeso il giudizio di idoneita'  al
sevizio. 
    L'espulsione e' stata irrogata su proposta dello stesso direttore
della Scuola, in applicazione del combinato disposto dell'art. 6-ter,
commi 3 e 5 del decreto del Presidente della Repubblica n. 335/1982 -
per cui «sono espulsi dal corso gli allievi e  gli  agenti  in  prova
responsabili di mancanze  punibili  con  sanzioni  disciplinari  piu'
gravi della deplorazione»,  «la  dimissione  dal  corso  comporta  la
cessazione di ogni rapporto con l'amministrazione» -  e  dell'art.  6
comma 4, n. 8 del decreto del Presidente della Repubblica n. 737/1981
- che punisce con la  sanzione  della  sospensione  dal  servizio  la
condotta  di  «uso  non  terapeutico  di  sostanze   stupefacenti   o
psicotrope risultante da referto medico legale». 
    Dagli accertamenti medico-legali  disposti  in  occasione  di  un
sinistro stradale, infatti, e' risultato che il ricorrente  ha  fatto
uso di sostanza stupefacente del tipo cannabis, come  dimostrato  dal
rinvenimento nelle urine  dei  relativi  metaboliti.  La  circostanza
emerge, inoltre, dalle dichiarazioni spontanee del medesimo,  che  ha
confessato di aver fatto uso della sostanza,  benche'  alcuni  giorni
prima del sinistro. Tali dichiarazioni sono state rilasciate in  data
22 agosto 2019 agli agenti  recatisi  presso  l'ospedale  in  cui  il
ricorrente era ricoverato  e  dagli  stessi  agenti  riportate  nella
relazione di servizio del 30 agosto 2019. 
    Il ricorrente contesta, in primo luogo, la veridicita' dei  fatti
posti a fondamento degli atti impugnati, negando  sia  l'autenticita'
della dichiarazione confessoria - la cui verbalizzazione e'  avvenuta
non  nell'immediatezza  dei  fatti,  ma  ben  8  giorni  dopo  -  che
l'attendibilita' scientifica  delle  analisi  effettuate.  Deduce  il
generale difetto di contraddittorio nell'iter  di  irrogazione  della
sanzione e la sua insufficiente motivazione, anche in relazione  alla
particolare gravita'  degli  effetti.  Lamenta,  in  particolare,  il
difetto  di  ragionevolezza  e  proporzionalita'  del   provvedimento
assunto  dall'Amministrazione.  Le  tracce  di   cannabis   rinvenute
sarebbero infatti indice di un uso della sostanza del tutto isolato e
collocato   nella   pausa   estiva   delle   attivita'    didattiche,
comportamento che non  sarebbe  quindi  meritevole  di  una  sanzione
definitivamente  preclusiva  di   ogni   possibilita'   di   carriera
nell'Amministrazione     di     Polizia.      Valorizza,      quindi,
un'interpretazione della disposizione che tenga conto della  gravita'
in   concreto   della   condotta,    in    particolare    attribuendo
all'espressione «uso non terapeutico di sostanze stupefacenti» di cui
all'art. 6 comma 4, n. 8 del decreto del Presidente della  Repubblica
n. 737/1981 un significato tale da  escludere  il  mero  consumo  una
tantum. 
    L'Amministrazione replica  evidenziando  la  natura  strettamente
vincolata  del  provvedimento,  giacche'  l'espulsione   dell'allievo
agente e' prevista dall'art. 6-ter del decreto del  Presidente  della
Repubblica   n.   335/1982   come   indefettibile   conseguenza    di
comportamenti punibili - secondo il codice  disciplinare  applicabile
agli agenti di ruolo - con una sanzione superiore alla  deplorazione,
non essendo peraltro necessario  che  la  stessa  sia  effettivamente
irrogata. La natio legislativa risiederebbe nel giudizio  prognostico
negativo  circa  l'affidabilita'  nel  corretto   svolgimento   delle
funzioni, che puo' ragionevolmente effettuarsi nei confronti  di  chi
si renda responsabile, in questa fase formativa e  di  addestramento,
di violazioni  disciplinari  aventi  particolare  gravita'.  In  sede
cautelare, la domanda ex  art.  55  c.p.a.  e'  stata  respinta  (con
l'ordinanza di questo Tribunale n. 12  del  29  febbraio  2020),  per
insufficiente specificazione dei profili di periculum in mora  e  per
non essere stata dimostrata  l'utilita'  concreta  del  provvedimento
interinale domandato, con contestuale rinvio a separato provvedimento
per rimettere d'ufficio alla Corte costituzionale, ai sensi dell'art.
23  della  legge   n.   87/1953,   la   questione   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 6-ter comma 3  del  decreto  del  Presidente
della Repubblica n. 335/1982. 
    I termini della questione di costituzionalita' 
    Il Tribunale conviene con  l'interpretazione  della  disposizione
fatta propria dalla difesa erariale e riconosce la  natura  vincolata
del provvedimento espulsivo. Ritiene pero' che l'art. 6-ter  comma  3
del decreto del Presidente della Repubblica n.  335/1982  -  per  cui
«sono  espulsi  dal  corso  gli  allievi  e  gli  agenti   in   prova
responsabili di mancanze  punibili  con  sanzioni  disciplinari  piu'
gravi della deplorazione» - sia costituzionalmente illegittimo, nella
parte in cui non prevede  che  la  sanzione  venga  irrogata  solo  a
seguito di un accertamento in contraddittorio con l'interessato della
violazione e non consente di valutarne la gravita' in  concreto,  ne'
di commisurare a questa la misura della sanzione. 
    Per  le  suddette  ragioni,  la  norma  violerebbe  il  principio
costituzionale di ragionevolezza (art. 3  Cost.),  sotto  il  profilo
della rigida automaticita' del meccanismo espulsivo vigente  per  gli
allievi agenti e per gli agenti in prova (ragionevolezza  intrinseca)
e della  radicale  diversita'  di  regime  rispetto  agli  agenti  in
servizio effettivo (disparita' di trattamento),  nonche'  quello  del
c.d. «giusto procedimento» (art. 97 Cost.), alla luce dell'assenza di
qualsiasi  forma  di  partecipazione  dell'interessato  nell'iter  di
irrogazione della sanzione e della compromissione che  ne  deriva  al
suo diritto di difesa (art. 24 Cost.). 
    I requisiti: 
        a) La rilevanza 
    Sussiste il requisito della rilevanza, giacche' il  giudizio  non
puo'  essere  definito  «indipendentemente  dalla  risoluzione  della
questione di legittimita'» (art. 23, comma 2, legge n. 87/1953). 
    L'art. 6-ter comma 3 del decreto del Presidente della  Repubblica
n. 335/1982 e' infatti la disposizione applicatile  alla  fattispecie
in esame, in quanto, riferendosi alle mancanze punibili con  sanzioni
disciplinari   piu'   gravi   della   deplorazione»,   abbraccia   il
comportamento posto in essere dal  ricorrente  del  giudizio  a  quo,
cioe'  l'uso  non  terapeutico  di  sostanza  stupefacente  di   tipo
cannabis. La disposizione contestata, infatti, rinvia  indirettamente
all'art. 6 comma 4 del decreto del  Presidente  della  Repubblica  n.
737/1981, ove  sono  elencate  le  infrazioni  per  cui  puo'  essere
inflitta la sanzione della sospensione, tra le quali (al numero 8) la
condotta sopra menzionata. E' opportuno,  infine,  precisare  che  la
sospensione dal servizio - come risulta  dall'elenco,  in  ordine  di
importanza,   delle   sanzioni   disciplinari   per   il    personale
dell'Amministrazione di pubblica sicurezza contenuto nell'art. 1  del
decreto del Presidente della Repubblica n. 737/1981 - e'  considerata
dall'ordinamento  dell'Amministrazione  di   Polizia   una   sanzione
disciplinare piu' grave della deplorazione. 
    Ad  ulteriore  conferma  della  necessaria  applicabilita'  della
disposizione qui contestata, si evidenzia che la stessa viene  citata
negli atti impugnati - in particolare nel decreto di  espulsione  del
Capo della Polizia (pag. 2 «Ritenuto  che  sussistono  i  presupposti
richiesti dall'art. 6-ter, comma 3 del citato decreto del  Presidente
della Repubblica  335/1982,  e  successive  modificazioni»)  e  nella
relativa proposta del sirettore della scuola (pag. 3  «Alla  luce  di
quanto riportato, si ritengono soddisfatte le condizioni previste dal
sopra citato art. 6-ter del decreto del Presidente  della  Repubblica
n.  335/1982  ...»)  -  come  presupposto  giuridico  della  sanzione
irrogata al ricorrente. 
    La legittimita' dell'azione amministrativa  nel  giudizio  a  quo
deve essere dunque necessariamente vagliata da questo Tribunale  alla
luce dell'art. 6-ter  decreto  del  Presidente  della  Repubblica  n.
335/1982, che fonda e disciplina il potere dell'Amministrazione nella
fattispecie concreta. 
    Soffermandosi, specificamente, sul profilo dell'attualita'  della
rilevanza, si evidenzia che la stessa non e' venuta meno per  effetto
della  decisione  sull'istanza  cautelare  (come  da   ordinanza   n.
12/2020). Nell'attuale sistema processuale  amministrativo,  infatti,
la sede cautelare non puo' piu' essere considerata alla stregua di un
«giudizio» avente carattere di autonomia e potenziale autosufficienza
rispetto al merito della decisione, su cui parametrare specificamente
il  requisito  in  esame.   Il   Tribunale   conosce   il   dibattito
giurisprudenziale sorto con riferimento ai rapporti tra incidente  di
legittimita'  costituzionale  e   giudizio   cautelare,   nonche'   i
precedenti orientamenti della Corte  costituzionale,  che  per  lungo
tempo  ha  ritenuto  inammissibile,  per  difetto  di  rilevanza,  la
questione di legittimita' costituzionale  sollevata  dopo  l'adozione
del definitivo provvedimento  cautelare.  La  questione  era  infatti
ritenuta  tardiva  in  relazione   al   giudizio   cautelare,   ormai
conclusosi, e solo ipotetica con riferimento al (futuro ed eventuale)
giudizio di merito, il cui  svolgimento  era  rimesso  all'iniziativa
della parte  interessata.  Si  e'  quindi  ideata  una  soluzione  di
compromesso,   consistente   nel   sollevare    la    questione    di
costituzionalita' sospendendo lo stesso giudizio  cautelare  ed  ogni
valutazione sulfumus bonz zuris, previa concessione di una misura  ad
interim destinata ad esplicare i suoi effetti fino -  alla  pronuncia
della Corte costituzionale e alla riassunzione in sede cautelare. 
    Oggi, tuttavia, alla luce del  mutato  quadro  normativa  e  alla
indefettibilita' della pronuncia di merito, secondo  quanto  disposto
dal nuovo Codice - decreto legislativo  n.  104/2010  (cfr.  art.  55
commi 4 e 11 c.p.a.), puo' ben  affermarsi  la  permanente  rilevanza
della questione anche dopo la pronuncia  sulla  domanda  cautelare  e
indipendentemente dall'accoglimento o dalla reiezione  della  stessa.
Si  veda,  da  ultimo,  Corte  costituzionale  n.  200/2014  che   ha
sconfessato i precedenti orientamenti e affermato  la  necessita'  di
parametrare  il  requisito  della  rilevanza  al  giudizio  nel   suo
complesso e non alla specifica fase cautelare  («nel  nuovo  processo
amministrativo  la  concessione  della  misura  cautelare,  ai  sensi
dell'art. 55, comma 11, del decreto  legislativo  n.  104  del  2010,
comporta l'instaurazione del giudizio di merito senza  necessita'  di
ulteriori  adempimenti,  con  la  conseguenza  che  la  questione  di
legittimita' costituzionale non e' intempestiva rispetto a tale  sede
contenziosa, essendo ora  il  giudice  provvisto  di  piena  potesta'
decisoria. La questione, quindi, deve  considerarsi  rilevante»).  Si
richiama  altresi',  con  particolare  riguardo  ad   un'ipotesi   di
reiezione della domanda cautelare, Corte costituzionale  n.  102/2012
che ha disatteso  l'eccezione  di  inammissibilita'  sollevata  dalla
Regione, sempre in ragione della permanente rilevanza della questione
di costituzionalita' con riferimento al merito («la  prima  eccezione
non  e'   fondata   giacche',   dalla   pur   sintetica   motivazione
dell'ordinanza   rimessione,   si   evince   che   il    dubbio    di
costituzionalita' delle norme  de  quibus  non  viene  sollevato  per
decidere  l'istanza  cautelare  di  sospensione   del   provvedimento
impugnato, bensi' (dopo il rigetto di tale istanza) al fine  di  dare
soluzione al giudizio «sotto il profilo del merito» e di accertare la
validita' o meno del provvedimento medesimo per vizi  derivati  dalla
eventuale  illegittimita'  costituzionale  delle  norme  della  legge
regionale oggetto di censura). 
    Nel presente  giudizio  a  quo  la  domanda  cautelare  e'  stata
respinta  per  non  essere  stati  adeguatamente  circostanziati   il
periculum in mora e l'interesse ad agire in  sede  cautelare,  in  un
contesto in  cui  appariva  altamente  verosimile  l'  inattuabilita'
pratica della misura richiesta, cioe' l'ammissione con  riserva  agli
esami. 
    Gli effetti del provvedimento di espulsione non appaiono comunque
irreversibili. Alla declaratoria di illegittimita' della disposizione
contestata conseguirebbe, infatti, una pronuncia di annullamento  del
provvedimento di espulsione, a seguito della quale il ricorrente  ben
potrebbe essere riammesso in sovrannumero  ad  un  corso  successivo,
previo  eventuale  riesercizio  del  potere  sanzionatorio  in  senso
conforme alle norme costituzionali (i cui esiti non sono, ovviamente,
scrutinabili dal giudice). 
        b) La non manifesta infondatezza 
    Come  anticipato,  il   Tribunale   dubita   della   legittimita'
costituzionale dell'art. 6-ter comma 3  del  decreto  del  Presidente
della Repubblica n. 335/1982  sotto  tre  distinti  profili,  che  si
ritengono non manifestamente infondati nei termini che seguono. 
    1. In primo luogo, si  rileva  l'irragionevolezza  intrinseca,  e
quindi la diretta contrarieta' all'art. 3 della Costituzione, di  una
previsione che commini una sanzione rigida e predeterminata a  fronte
di  una  notevole  varieta'  di   comportamenti,   senza   consentire
all'Amministrazione alcuna  considerazione  dei  caratteri  specifici
dell'infrazione, sotto il profilo della  gravita'  del  fatto  e  dei
profili di  colpevolezza  dell'autore,  al  fine  di  commisurare  la
risposta sanzionatoria. 
    Si consideri, infatti, che per gli allievi agenti e gli agenti in
prova l'espulsione e' prevista quale conseguenza obbligata in caso di
«mancanze  punibili  con  sanzioni  disciplinari  piu'  gravi   della
deplorazione», cioe' per l'integrazione di una qualsiasi condotta per
cui dovrebbe essere irrogata la  sospensione  dal  servizio  (art.  6
decreto  del  Presidente  della  Repubblica   n.   737/1981)   o   la
destituzione (art. 7  decreto  del  Presidente  della  Repubblica  n.
737/1981). Le disposizioni da  ultimo  citate  delineano  una  grande
varieta' di  comportamenti,  in  astratto  certo  accomunati  da  una
particolare gravita' e riprovevolezza, ma che possono in concreto non
esprimere un  uniforme  grado  di  offensivita'  al  prestigio  della
funzione o  al  suo  regolare  svolgimento  e  non  ritenersi  quindi
meritevoli della massima sanzione. 
    Le condotte elencate nelle suddette disposizioni,  infatti,  sono
in molti casi descritte in  termini  generici,  mediante  fattispecie
«aperte»  che  fanno  uso  di  concetti  giuridici  indeterminati   o
implicanti giudizi di valore potenzialmente  mutevoli  («denigrazione
dell'Amministrazione o dei superiori», «turbamento nella  regolarita'
o nella continuita' del servizio di istituto»,  «pubblico  scandalo»,
«mancanza del senso dell'onore o del  senso  morale»),  o  ancora  di
nozioni tecnico-giuridiche onnicomprensive (quali quella di «sostanza
stupefacente», o di «delitto non colposo») che sono  invece  oggetto,
in  altri  rami  dell'ordinamento,  di   una   disciplina   altamente
differenziata  sotto  il  profilo  delle  conseguenze  giuridiche,  a
seconda dei caratteri della fattispecie concreta. 
    Il rigido  dettato  dell'art.  6-ter  comma  3  del  decreto  del
Presidente della Repubblica n.  335/1982  impedisce  pero'  qualsiasi
esplicazione di  una  -  quanto  mai  necessaria  -  discrezionalita'
tecnica da parte  dell'Amministrazione,  determinando  per  l'allievo
agente o per l'agente in prova l' identica e  gravissima  conseguenza
dell'espulsione con  cessazione  dal  servizio,  anche  a  fronte  di
comportamenti che, pur riconducibili al dettato normativa, presentino
una trascurabile offensivita' in concreto. 
    Una simile incongruenza non  puo'  manifestarsi  invece  per  gli
agenti  in  servizio  effettivo,  in  virtu'  di   disposizioni   che
consentono  l'esercizio   di   discrezionalita'   nella   valutazione
dell'infrazione e l'opportuna gradazione dell'effetto giuridico della
sanzione.  L'art.  1  comma  2  del  decreto  del  Presidente   della
Repubblica n. 737/1981 dispone infatti che le sanzioni  disciplinari,
elencate al comma precedente, «devono essere graduate, nella  misura,
in relazione alla gravita' delle infrazioni ed alle  conseguenze  che
le stesse hanno prodotto per la Amministrazione o per  il  servizio».
La stessa definizione della sanzione della sospensione (art. 6  comma
1 del decreto del  Presidente  della  Repubblica  n.  737/1981),  che
consiste nell'allontanamento dal servizio «per un periodo  da  uno  a
sei mesi», consente un'ampia elasticita' nella  commisurazione  della
risposta punitiva, all'interno  della  cornice  edittale.  L'art.  6,
comma 4 del medesimo decreto del Presidente della Repubblica  precisa
che la sospensione dal servizio «puo'» (e non deve)  essere  inflitta
in presenza dei comportamenti di seguito elencati,  configurando  una
discrezionalita' anche nell'an della risposta  sanzionatoria.  L'art.
13 comma 1 precisa che l'organo competente ad infliggere la  sanzione
«deve tener conto di tutte le circostanze attenuanti, dei  precedenti
disciplinari  e  di  servizio  del   trasgressore,   del   carattere,
dell'eta', della qualifica e dell'anzianita' di servizio». 
    Nessuna di queste disposizioni e' pero'  applicabile  all'allievo
agente o all'agente in  prova,  per  i  quali  l'espulsione  consegue
sempre e indistintamente alla commissione di «mancanze  punibili  con
sanzioni disciplinari piu' gravi della deplorazione». La disposizione
prescinde, quindi, anche dall'effettiva irrogazione della sanzione  e
si accontenta della mera punibilita' in astratto  del  comportamento,
per essere lo stesso sussumibile nel dettato normativo degli articoli
6 e 7 del decreto del Presidente della Repubblica n. 737/1981. 
    Non si dubita che una violazione meriti di essere piu' gravemente
punita quando commessa da colui che non  appartiene  ancora  a  pieno
titolo  all'amministrazione  di  Polizia.  E'  conforme  a   ragione,
infatti, la previsione di una maggiore  severita'  delle  valutazioni
disciplinari e della risposta sanzionatoria nella fase che precede il
servizio effettivo, per una piu' ampia discrezionalita' configurabile
in capo all'Amministrazione in un periodo di formazione e  di  prova,
nonche' per la  particolare  attenzione  al  comportamento  che  deve
pretendersi dall'aspirante agente, il quale  dovrebbe  dimostrare  di
essere  all'altezza  della  funzione  da  svolgere.  Non  puo'  pero'
razionalmente giustificarsi il rigido automatismo  che  l'art.  6-ter
comma 3 del decreto  del  Presidente  della  Repubblica  n.  335/1982
configura, anche in ragione della mancanza, come meglio si  dira'  in
seguito, di un «luogo procedimentale»  all'interno  del  quale  possa
collocarsi un piu' compiuto accertamento del fatto, nei suoi  profili
soggettivi ed oggettivi. 
    Si richiama, in proposito, l'orientamento consolidato della Corte
costituzionale, che in piu' occasioni ha dichiarato l' illegittimita'
di automatismi sanzionatori, proprio  per  la  loro  indifferenza  ai
caratteri  della  fattispecie   concreta,   sul   presupposto   della
«irragionevolezza  intrinseca  della  sanzione  indifferenziata   per
ipotesi marcatamente diverse in termini di gravita'  della  condotta»
(Corte Cost. n. 88/2019). 
    Possono, tra le tante, citarsi le seguenti pronunce: 
        Corte  costituzionale   n.   88/2019,   che   ha   dichiarato
l'illegittimita'  costituzionale  dell'art.  222,  comma  2,   quarto
periodo, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice
della strada) nella parte in cui non prevede la possibilita', per  il
giudice penale che pronunci sentenza di condanna o patteggiamento per
i reati di omicidio (art. 589-bis c.p.) e lesioni personali  stradali
(art. 590-bis c.p.), di dispon-e  la  sospensione  della  patente  in
alternativa alla revoca; 
        Corte  costituzionale  n.   222/2018,   che   ha   dichiarato
l'illegittimita' della previsione in misura fissa e pari a dieci anni
delle pene accessorie conseguenti  alla  condanna  per  il  reato  di
bancarotta fraudolenta (art. 216 legge fallimentare); 
        Corte  costituzionale  n.   268/2016,   che   ha   dichiarato
l'illegittimita' costituzionale degli articoli  866,  comma  1,  867,
comma 3 e 923, comma 1, lettera i), del decreto legislativo 15  marzo
2010, n. 66 (Codice dell'ordinamento militare), nella  parte  in  cui
non prevedono l'instaurarsi  del  procedimento  disciplinare  per  la
cessazione dal servizio per perdita del grado conseguente  alla  pena
accessoria della interdizione temporanea dai pubblici uffici. 
    La questione di legittimita'  di  cui  alla  sentenza  da  ultimo
menzionata presenta, ad avviso del  Tribunale,  particolari  analogie
con  la  presente,   avendo   riguardato   proprio   un   automatismo
sanzionatorio disciplinare che conseguiva al mero accertamento di una
violazione,  senza  la  mediazione  di   un   apposito   procedimento
amministrativo. In questo caso l'infrazione era pur sempre accertata,
in tutti i suoi elementi, nel contesto di un giudizio penale, con  le
relative garanzie e l'elevatissimo margine di certezza («al di la' di
ogni ragionevole dubbio, come recita l'art. 533 c.p.p.) che  in  tale
sede  guida  l'accertamento  della   responsabilita'.   E   tuttavia,
l'impossibilita' di graduare la sanzione disciplinare secondo criteri
di proporzionalita' e adeguatezza al caso  concreto  ha  condotto  la
Corte a ritenere le disposizioni contestate irragionevoli e quindi in
contrasto con l'art. 3 della Costituzione. 
    Piu' in generale, la Corte ha nel tempo espunto  dall'ordinamento
diverse ipotesi  di  presunzioni  assolute,  laddove  le  stesse  non
esprimessero un rapporto causa-effetto conforme all'id quod plerumque
accidit. In particolare, ha affermato che: «l'irragionevolezza  della
presunzione assoluta si puo' cogliere  tutte  le  volte  in  cui  sia
«agevole»  formulare  ipotesi  di  accadimenti  reali  contrari  alla
generalizzazione posta a base della presunzione stessa»  (ex  multis,
sentenze n. 232 e n. 213 del 2013, n. 182 e n. 164 del 2011, n. 265 e
n. 139 del 2010). Nel caso di specie, pur in una doverosa  ottica  di
selezione morale nella fase che precede l'ingresso  in  servizio,  si
dubita che possa assolutamente presumersi l'indegnita' alla  funzione
di chi commetta «mancanze punitili  con  sanzioni  disciplinari  piu'
gravi della  deplorazione»  anche  quando  l'infrazione  presenti  in
concreto una minima  gravita'  e  una  trascurabile  offensivita'  ai
valori e all'importanza del ruolo. 
    2. La violazione dell'art. 3 Cost. emerge anche sotto il  profilo
della disparita' di trattamento degli allievi agenti e  degli  agenti
in prova, rispetto al regime valevole  per  gli  agenti  in  servizio
effettivo. La disposizione Costituzionale  e'  quindi  invocata  come
norma interposta, assumendo come tertium comparationis i gia'  citati
articoli 1, 6, 7 del  decreto  del  Presidente  della  Repubblica  n.
737/1981,  nonche'  agli  articoli  12  e  ss.   che   prevedono   il
procedimento da seguire per irrogare il provvedimento disciplinare. 
    Il regime sanzionatorio previsto dall'art.  6-ter,  comma  3  del
decreto  del  Presidente  della   Repubblica   n.   335/1982   appare
irragionevolmente discriminatorio con riferimento non  alla  maggiore
gravita' della conseguenza punitiva, bensi' al  suo  automatismo,  in
totale carenza di una discrezionalita'  applicativa  e  di  qualsiasi
garanzia  procedimentale  e  partecipativa   nell'irrogazione   della
stessa. 
    Per   quanto   attiene   all'automaticita'   della   sanzione   e
all'impossibilita' di graduarla si rinvia a quanto  gia'  argomentato
nel  punto  precedente  e  alle  disposizioni,  ivi  richiamate,  che
configurano un'ampia discrezionalita'  applicativa  a  beneficio  dei
soli agenti in servizio effettivo (articoli 1 comma 2, 6 comma 1 e 4,
13 decreto del Presidente della Repubblica n. 737/1981). 
    Con riguardo invece al profilo procedurale, si evidenzia che solo
per gli agenti in servizio effettivo la  legge  prevede  un  apposito
procedimento disciplinare, puntualmente normativizzato e scandito  da
diverse fasi, funzionati ad assicurare il contraddittorio - cfr. art.
13 comma 3: «nello svolgimento del procedimento deve essere garantito
il contraddittorio»  -  e  il  diritto  di  difesa  dell'interessato,
nonche' ad addivenire al miglior accertamento del fatto e  alla  piu'
giusta commisurazione della sanzione (articoli 12 e ss.  del  decreto
del Presidente della Repubblica n. 737/1981). 
    In particolare, all'agente in servizio deve essere contestato per
iscritto  l'addebito,  con  possibilita'  di   contro-dedurre   anche
attraverso produzioni documentali o audizione di testimoni (art. 14).
Ampie possibilita' di difesa e di contraddittorio, avvalendosi  della
possibile assistenza  di  un  difensore,  si  riscontrano  poi  nella
successiva fase dell'iter procedimentale prevista, per le  infrazioni
piu' gravi e dopo un primo  vaglio  di  fondatezza  dell'incolpazione
(art. 19, comma 6), di fronte ad un apposito organo, il consiglio  di
disciplina (art. 20). 
    Emerge  quindi  la  radicale  diversita'   rispetto   al   regime
dell'allievo (o dell'agente in  prova),  che  e'  invece  espulso  in
ragione del mero riscontro unilaterale, non sottoposto a  particolari
formalita'   procedurali,   di   mancanze   punibili   con   sanzioni
disciplinari piu' gravi della deplorazione». 
    Pur  potendosi  astrattamente   ammettere   una   semplificazione
procedimentale per  chi  ancora  non  appartiene  definitivamente  ai
ranghi dell'Amministrazione di Polizia e non e' quindi assoggettabile
ad un «potere disciplinare» in senso proprio, non puo' in alcun  modo
giustificarsi  la  radicale  mancanza  di  un   qualsiasi   strumento
partecipativo dell'interessato. 
    3. Anche prescindendo  dal  confronto  con  il  regime  giuridico
valevole per altre categorie di soggetti, il quadro  sopra  delineato
porta a ritenere che l'art. 6-ter comma 3 del decreto del  Presidente
della Repubblica n. 335/1982 si ponga  in  contrasto  con  l'art.  97
Cost. e in particolare con il principio  del  «giusto  procedimento»,
quale canone  fondamentale  dell'azione  amministrativa  direttamente
desumibile   dai   principi   di   legalita',   buon   andamento   ed
imparzialita'. 
    Il principio invocato  e'  definito  nella  giurisprudenza  della
Corte costituzionale fin dalla risalente sentenza n. 13/1962, per cui
«quando il  legislatore  dispone  che  si  apportino  limitazioni  ai
diritti dei cittadini, la regola che il legislatore normalmente segue
e' quella di  enunciare  delle  ipotesi  astratte,  predisponendo  un
procedimento amministrativo attraverso il quale gli organi competenti
provvedano ad imporre concretamente tali limiti, dopo avere fatto gli
opportuni accertamenti, con la collaborazione, ove occorra, di  altri
organi  pubblici,  e  dopo  avere  messo  i  privati  interessati  in
condizioni di esporre le proprie ragioni sia  a  tutela  del  proprio
interesse, sia a titolo di collaborazione nell'interesse pubblico». 
    Piu' di recente, nella sentenza n. 15/2017 - che ha censurato  un
meccanismo di  automatica  decadenza  degli  incarichi  dirigenziali,
disposta al fine di  contenere  la  spesa  pubblica  -  la  Corte  ha
affermato che «la esistenza di una preventiva fase valutativi risulta
essenziale anche per assicurare il rispetto dei principi  del  giusto
procedimento, all'esito del quale  dovra'  essere  adottato  un  atto
motivato che ne consenta comunque un controllo giurisdizionale». 
    Nel caso di  specie  difettano  sia  una  idonea  «distanza»  tra
ipotesi  astratta  e  provvedimento,  essendo  quest'ultimo  «a  rime
obbligate» in ragione del riscontro sommario di determinate condotte,
sia un adeguato spazio valutativo dei fatti e  degli  interessi,  non
essendo  prevista  alcuna  disciplina  dell'iter  procedimentale   da
seguire. La  gia'  citata  sentenza  della  Corte  costituzionale  n.
268/2016, con riguardo all'irrogazione  della  sanzione  disciplinare
della cessazione dal  servizio  del  militare,  ha  invece  affermato
l'indefettibilita' di una mediazione procedimentale, perfino nel caso
in cui l'infrazione risulti da condanna penale passata in giudicato. 
    Con riguardo ad una sanzione  disciplinare,  la  cui  irrogazione
postula l'accertamento di una responsabilita', il giusto procedimento
dovrebbe  poi  conformarsi,  in  particolare,  all'art.   24   Cost.,
assicurando  il  diritto  di  difesa   dell'interessato.   La   Corte
costituzionale (nella sentenza  356/1995),  pur  precisando  che  «il
diritto di difesa non si estende, nel suo pieno contenuto,  oltre  la
sfera della giurisdizione», afferma  tuttavia  che  anche  in  ambito
procedimentale  «deve  essere  salvaguardata  una   possibilita'   di
contraddittorio  che  garantisca  un  nucleo  essenziale  di   valori
inerenti ai diritti inviolabili della persona (sentenze n. 71 e n. 57
del 1995), quando possono derivare per essa sanzioni che incidono  su
beni, quale il mantenimento del rapporto di servizio o di lavoro, che
hanno rilievo costituzionale». 
    La necessita' di garantire  in  maniera  effettiva  tale  diritto
emerge in modo  tanto  piu'  evidente,  quanto  piu'  gravi  sono  le
conseguenze  giuridiche  che   il   provvedimento   determina.   Puo'
richiamarsi in proposito, quanto affermato dalla sentenza n. 126/1995
della Corte costituzionale, che ha dichiarato illegittimo  l'art.  33
della  legge  31  luglio  1954,  n.  599  (Stato  dei   sottufficiali
dell'Esercito, della Marina e dell'Aeronautica), nella parte  in  cui
non prevede  che  al  sottufficiale  proposto  per  la  dispensa  dal
servizio sia assegnato un  termine  per  presentare,  ove  creda,  le
proprie osservazioni e sia data la  possibilita'  di  essere  sentito
personalmente. La Corte, nel valutare  la  costituzionalita'  di  una
disposizione che poteva determinare un effetto giuridico  di  estrema
gravita' all'esito di un agire amministrativo del  tutto  unilaterale
«privo di una qualsiasi forma di partecipazione o  interlocuzione  da
parte dell'interessato», ne ha rilevato l'illegittimita'  proprio  in
ragione della «carenza di garanzie procedimentali  a  presidio  della
difesa». 
    Tutto cio' premesso, si evidenza che il caso da cui scaturisce il
presente giudizio di costituzionalita' e' chiaramente esemplificativo
della totale unilateralita'  nella  formazione  della  determinazione
amministrativa: il ricorrente nel giudizio a  qua  e'  stato  espulso
sulla base di un referto medico e, soprattutto, di una  dichiarazione
spontanea autoincriminante, rilasciata pero' in un contesto  estraneo
all'iter procedimentale di espulsione,  in  condizioni  di  oggettiva
fragilita' psico-fisica (presso l'Ospedale in cui era  ricoverato)  e
di particolare sorpresa (gli stessi agenti  verbalizzati  riferiscono
che la dichiarazione confessoria e' stata rilasciata  dal  ricorrente
«istintivamente  e  spontaneamente»,  poiche'  «sorpreso   dell'esito
degliaccertamenti»), senza essere  successivamente  mai  ascoltato  a
propria difesa. 
        c) Il tentativo di interpretazione conforme 
    Si rappresenta, infine, che il Tribunale non ha potuto dare  alla
disposizione un'interpretazione conforme ai  precetti  costituzionali
che si  ritengono  violati,  cio'  risultando  precluso  dai  confini
ontologici dell'attivita' ermeneutica. 
    La  natura  rigida,  e   quindi   limitatamente   interpretabile,
dell'art. 6-ter comma 3 del decreto del Presidente  della  Repubblica
n. 335/1982 emerge dal suo stesso dettato testuale,  che  si  ripete:
«sono  espulsi  dal  corso  gli  allievi  e  gli  agenti   in   prova
responsabili di mancanze  punibili  con  sanzioni  disciplinari  piu'
gravi della deplorazione.» 
    Dovendosi  il  giudice  attenere  al  significato  dei   termini,
singolarmente e nella loro reciproca connessione si evidenzia che: 
        l'effetto giuridico e' previsto come  automatica  conseguenza
del riscontro del presupposto oggettivo. Il  tradizionale  sillogismo
del  diritto  amministrativo  normapotere-effetto  vede  quale  unica
estrinsecazione del potere  la  sua  necessaria  intermediazione  per
l'adozione  del  provvedimento  espulsivo,  che  si  presenta   pero'
vincolato in tutti i suoi profili. Non possono  ricavarsi  spazi  per
l'esercizio  di  discrezionalita',  essendo  la  norma  costruita  in
termini lineari ed inequivoci («sono espulsi» e non  «possono  essere
espulsi»), con  l'uso  del  tempo  presente  indicativo  con  cui  il
legislatore  normalmente  disciplina  la  produzione  degli   effetti
giuridici necessitati. 
        non e' possibile graduare la risposta punitiva, giacche'  non
sono previste, per gli allievi agenti e  per  gli  agenti  in  prova,
altre  sanzioni  di  minore  gravita',  diverse  dall'espulsione.  Le
stesse, anche ove venissero autonomamente  congegnate  (mutuandone  i
caratteri dalle ipotesi  di  cui  al  decreto  del  Presidente  della
Repubblica n. 737/1981), porrebbero poi  problemi  di  compatibilita'
con il particolare  contesto  formativo  e  i  relativi  obblighi  di
frequenza   dei   corsi,   che   non   potrebbero   essere    risolti
dall'interprete. 
        non  e'  possibile  configurare  per  l'allievo   agente   un
procedimento  di  accertamento   della   responsabilita'   in   senso
maggiormente   garantista,   sulla   falsariga    del    procedimento
disciplinare valevole per gli agenti in servizio. La disposizione  e'
chiara nel far conseguire la sanzione al mero riscontro  di  condotte
«punibili» con sanzioni piu' gravi della deplorazione, cosi' svilendo
il momento dell'accertamento dell'infrazione al solo riscontro  della
possibilita' in astratto di irrogare la sanzione.  Sulla  circostanza
si  sofferma  anche  la   difesa   Erariale,   laddove,   del   tutto
condivisibilmente afferma: «Giova nuovamente sottolineare al riguardo
che, ai  fini  della  legittimita'  dell'espulsione,  e'  sufficiente
l'adozione di comportamenti per i quali e' astrattamente ipotizzabile
una sanzione disciplinare superiore alla deplorazione, altrimenti  il
legislatore avrebbe previsto, quale presupposto, l'irrogazione  della
sanzione stessa». 
    Nella  specifica  fattispecie,  la  ritenuta  incostituzionalita'
della  norma  non  ha  potuto  essere  corretta  nemmeno   attraverso
l'interpretazione della disposizione da applicarsi  in  via  mediata,
cioe' cui l'art.  6,  comma  4,  del  decreto  del  Presidente  della
Repubblica n. 737/1981 che al numero 8  prevede,  tra  le  infrazioni
punibili con la sanzione della sospensione, la condotta commessa  dal
ricorrente nel giudizio a  quo  («uso  non  terapeutico  di  sostanze
stupefacenti o psicotrope risultante da referto medico  legale»).  Il
riferimento all'uso, senza  ulteriori  specificazioni,  impedisce  di
valorizzare i soli casi di assunzione abituale di stupefacente  o  di
tossicodipendenza, dovendosi ritenere che il legislatore,  se  avesse
inteso limitare l'applicazione della sospensione  dal  servizio  alle
sole ipotesi piu' gravi, avrebbe diversamente - e piu' esplicitamente
- configurato il precetto. Tale  interpretazione  appare  ancor  meno
praticabile  laddove  si  consideri  che,  nell'ordinaria  e  diretta
applicazione della disposizione (cioe' con riguardo  agli  agenti  in
servizio effettivo), non emerge alcuna esigenza di  circoscrivere  le
condotte punibili, potendosi gia'  ampiamente  graduare  la  risposta
sanzionatoria al fine di impedire misure sproporzionate. 
    Per le ragioni esposte, il Tribunale amministrativo regionale per
il Friuli-Venezia Giulia solleva  d'ufficio  ai  sensi  dell'art.  23
della legge n. 87/1953 la questione  di  legittimita'  costituzionale
delPart. 6-ter comma 3 del decreto del Presidente della Repubblica n.
335/1982, nella parte in cui, per gli allievi agenti e gli agenti  in
prova, riconnette automaticarnente la conseguenza espulsiva  al  mero
riscontro di «mancanze punibili con sanzioni disciplinari piu'  gravi
della deplorazione», senza consentire  una  valutazione  in  concreto
della gravita' dell'infrazione e una conseguente commisurazione della
sanzione, ne' un  procedimento  di  accertamento  in  contraddittorio
della  responsabilita',  ritenendo  la  disposizione  in   insanabile
contrasto con gli articoli 3 e 97 della Costituzione. 
    Sospende, di conseguenza, il giudizio in corso. 
    Ogni ulteriore statuizione in rito, in merito e  in  ordine  alle
spese e' riservata alla decisione definitiva.